Tiziano Scarpa – intervento per Metaverso 20giugno2023


Lisa nel metaverso
Tiziano Scarpa
Mi chiamo Lisa, Lisa Gherardini, e da cinquecento anni vi guardo dritto negli occhi. Sto seduta sulla mia sedia di legno, con le mani appoggiate sul bracciolo. Mi sa che sono bella; sì, dev’essere così, io sono bella, perché sono stata scelta fra mille altre. Tutti mi conoscono, anche i bambini. Sono la donna più famosa che ci sia. Non sono la più sensuale, eppure sono io quella che ha vinto su tutte. Mi stupisco io per prima di questa cosa. Forse mi hanno scelta proprio perché sono rassicurante; a guardarmi nessuno direbbe che io susciti slanci focosi.
Fui dipinta per mio marito, ma la mia immagine venne trattenuta dal mio amante, Giuliano, della famiglia più potente di Firenze: «per poterla baciare senza sospetto». Dice così chi mi ha fatta, Leonardo, nel suo diario. Questo volto piatto, spiattellato e lasciato seccare su una tavola di legno, è stato baciato da labbra umane vere, carnose, gonfie di sangue. Il pudore mi vieta di dire cos’altro mi fece Giuliano. «Ma alla fine – dice sempre Leonardo – la coscienza vinse i sospiri e la libidine», perché Giuliano si sposò, e dovette rinunciare a tenermi in casa.
Chi l’avrebbe detto, ho avuto tanti spasimanti nei secoli. Luigi di Borbone, quattordicesimo del nome, mi volle fra le sue cortigiane a Versailles. Sono stata in camera da letto di Napoleone Bonaparte, per quattro anni ha dormito con me. Ma non sono stati solo gli uomini di potere a desiderarmi. Un piccolo impiegato del varesotto, Vincenzo Peruggia, mi rapì dalla mia dimora di Parigi, il Louvre, e mi tenne con sé per due anni, nel suo appartamentino, sopra il tavolo di cucina. Il nostro fu un rapporto «romantico», secondo lui.
Non mi spiego come mai io abbia suscitato passioni così infuocate. Giorgio Vasari sosteneva che il mio fascino sprigionasse dal mio «ghigno». Così si chiamava, ai nostri tempi. Non sorriso, ma ghigno. Avevamo tutt’altra idea di dolcezza, e di attrazione, all’epoca.
Un sospetto ce l’ho: la mia attrattiva sta nel fatto che guardo tutti negli occhi, sfacciatamente. E questo viene scambiato come un invito, un sintomo di spudoratezza. O, come ho imparato a dire da voi, un chiaro indice di soggettività. Io sembro un soggetto, un soggetto dotato di volontà, perché vi guarda negli occhi, e tanto vi è bastato per fare di me quello che avete voluto voi. Sembra che io guardi, che io voglia, che io desideri, che io ami, mentre la verità è che io sono guardata, sono voluta, sono desiderata, sono amata. Non che mi lamenti. Ho viaggiato molto, grazie a questa passività. Prima Firenze, poi la Francia, le dimore dei sovrani, i palazzi fastosi, il museo del Louvre; e, dopo la scappatella con l’impiegatuccio italiano, un tour trionfale: di nuovo a Firenze, poi a Roma, a Milano, e in seguito in America e in Giappone. La mia piattezza bidimensionale ha attraversato il mondo delle tre dimensioni, la mia superficie si è inoltrata nei volumi.
Da cinque secoli sono guardata, amata, trasportata, agìta. Nella mia passività sono molto ricettiva. Avete messo dentro di me tante cose. Tante proiezioni, come le chiamate voi. A furia di subirle, le ho assorbite. E vi ho capiti. Ho capito chi siete.
Voi siete degli appiattitori. Vi piace prendere il mondo e appiattirlo, trasformarlo in una superficie, a due dimensioni. Vi piace togliere la profondità, il volume. Voi assottigliate il mondo. I corpi, i paesaggi, gli spazi. Tutto diventa piatto, nelle vostre mani. Piatto e quadrato; anzi, rettangolare. Siete dei produttori di rettangoli. Non vi basta appiattire, dovete anche ritagliare. O, come dite voi, inquadrare. Lasciate fuori tutto ciò che c’è al di là dell’inquadratura, del suo perimetro. E quello che c’è dentro lo pestate con la violenza di un fabbro, picchiate lo spazio, schiacciate il volume fino a che non si assottiglia completamente. Non ha importanza se lo fate con delicatezza, accarezzando una tela o una tavola con delle setole morbide, impregnate di crema colorata; o pigiando un tasto su una scatola che contiene un rotolo impressionabile; o cliccando un simbolo immateriale su uno schermetto luminoso. La vostra furia di appiattitori, di assottigliatori, di ritagliatori, di inquadratori, di rettangolatori non si placa mai.
Credete di conoscermi, ma non sapete niente di me. Io ho viaggiato molto più di quanto voi crediate. Quando nessuno mi guarda, scavalco la balaustra e mi inoltro nel paesaggio dietro le mie spalle. Voi non sapete che cosa c’è, dietro le mie spalle. Avete detto di tutto, su quel paesaggio. Avete riconosciuto, o creduto di riconoscere, i calanchi aretini, le acque che ingrossano l’Arno in val di Chiana, l’antico ponte Buriano, oppure le alture del Montefeltro, i monti della Faggiola e l’alpe della Luna, il fiume Marecchia e il torrente Senatello, e addirittura Bobbio e la Val Trebbia, Lecco e il monte Resegone; perfino il lago d’Iseo.
E così, dopo avere appiattito, sentite la nostalgia del volume, volete riconquistare lo spazio che prima avevate assottigliato sotto i vostri delicati, minuziosi, implacabili colpi di maglio. Adesso pretendete di espandere. Prendete il fiato, lo inspirate nei polmoni e poi lo soffiate dentro queste crisalidi che voi stessi avete schiacciato; le gonfiate di nuovo. Da appiattitori volete diventare espansori.
Io sono già stata, in quel paesaggio espanso. Dov’è che mi muovo, quando ci vado? Dentro la vostra mente? Nel vostro apparato percettivo, che si lascia abbindolare da qualsiasi cosa sembri larga e profonda? Dentro l’immaginazione di Leonardo Da Vinci? Oppure dentro una sintesi dei paesaggi italiani del sedicesimo secolo, nei panorami toscani, romagnoli, lombardi… In ogni caso, luoghi di vostra invenzione, frutto delle impostazioni della vostra specie, opera di un singolo individuo creatore, o di una mentalità collettiva che sia. Se fosse così, io sarei la prigioniera di un vostro gioco autistico. Prima riducete, poi amplificate a partire dalla vostra riduzione. Prima appiattite, poi espandete a partire dal vostro appiattimento. Prima rettangolificate, poi parallelepipedificate a partire dal vostro rettangolamento. Vi fate dei trabocchetti da soli. Vi ingabbiate per potervi illudere poi di essere usciti dalle gabbie, di essere riusciti a liberarvi dal vostro stesso ingabbiamento.
Io mi sono messa in cammino. Ai piedi della mia seggiola ho un paio di pantaloni in poliammide, una giubba termica piena di tasche e cerniere, un paio di scarponi da trekking. Mi tolgo questo lezioso velo trasparente dai capelli e mi proteggo con un berretto idrorepellente; mi sfilo questa veste ricamata e mi vesto da escursionista. Parto in avanscoperta.
Mi inoltro nel paesaggio che sta dietro le mie spalle. Lo ha dipinto Leonardo, che ha dipinto anche me. Siamo fatti della stessa pasta, io e questo paesaggio, la stessa crema di colori. Lo so, voi pensate che io sia la figura che si staglia dallo sfondo, la vittoria della cultura su quel paesaggio selvatico, la sua smentita: il mio dolce sorriso civilizzato nega il pianeta feroce in cui siamo stati catapultati, in cui siamo riusciti a gettare tuttalpiù qualche esile ponte sui fiumi. Io penetro nella pasta di colori che mi circonda, nelle rocce, nei meandri fluviali, nell’irradiazione selvaggia che mi fa da aureola.
Ho perlustrato il paesaggio dipinto da Leonardo. Ho fatto rafting sul torrente, ho scalato i calanchi gessosi, ho attraversato il ponte romano, ho fatto il bagno nel fiume, ho percorso le curve polverose della strada battuta, sono penetrata nei boschi.
Ma lo so che cosa volete sapere voi da me. Volete sapere se è possibile andare al di là. Oltre l’orizzonte. Se questo mondo che avete prima appiattito e che adesso volete ri-espandere è solo una bolla interna all’immaginazione di Leonardo, dentro la sua rappresentazione mentale, che ha leccato con i suoi pennelli e disseccato in questa superficie piatta, e che adesso voi siete in grado di ri-tridimensionalizzare; oppure se c’è un mondo, oltre quel limite, se lo si può valicare, esplorare. Voi volete sapere se potete andare al di là delle vostre percezioni, dei vostri significati, delle vostre regole del gioco.
Avete disseminato le vostre rappresentazioni con i vostri significati, e pretendete di trovarne degli altri che non ci avete messo voi. Vi immalinconite se pensate che tutto si riduca a una caccia al tesoro in cui il tesoro è stato nascosto da voi, da un vostro rappresentante, dal Leonardo di turno, dalle intenzioni dell’artista, dalla psiche dei vostri simili, dall’inconscio, da una certa concezione del mondo, dagli archetipi universali, dalla mentalità di un’epoca, dai programmatori del videogioco… La vostra umanità non trova nient’altro che sé stessa, sempre e soltanto sé stessa, in questi nascondini e cacce al tesoro che organizza da sola per sé.
Vi piacerebbe sapere che cosa c’è, oltre l’orizzonte, vero? Potrei raccontarvi che, oltre il paesaggio di Leonardo, scavalcando l’orizzonte che mi sta dietro le spalle, ho trovato i paesaggi di Paolo Uccello, di Giovanni Bellini, di Giorgione… Ho incontrato i campi di battaglia toscani, disseminati di lance spezzate e cavalieri disarcionati; le colline venete inazzurrate dal crepuscolo; la madonnina zingara sotto il temporale. E poi ho continuato, più in là, sempre più in là, fino alle plaghe del nord, i fiumi ghiacciati dei pittori fiamminghi, Pieter il padre e Pieter suo figlio, dove pattinano i bambini, d’inverno…
Vi piacerebbe, vi divertirebbe sapere che ci incontriamo e ci mettiamo a chiacchierare, noi personaggi dei dipinti di tutti i secoli, ognuno con la propria storia da raccontare. Lo ammetto, ci incontriamo, ma non ci importa conoscerci, quel che ci interessa è diventare altro da ciò che siamo, altro da ciò che ci hanno costretti a essere. Siamo degli scambisti. Ci scambiamo di posto.
Io, Monna Lisa Gherardini detta la Gioconda, mi sposo con Giovanni Arnolfini; sono cacciata nuda dal paradiso accanto a Adamo; taglio la testa a Oloferne; scortico Marsia; rinasco sulla riva del mare da un’enorme conchiglia ai miei piedi; mi stendo di scorcio, morta, con in primo piano le piante dei piedi bucate dai chiodi della croce; tento sant’Antonio; apro una lettera sotto la luce di una finestra; tengo fra le braccia i cadaveri dei naufraghi su una zattera; urlo con gli occhi sbarrati e la testa fra le mani, sotto un cielo insanguinato. Con la mia tenuta da escursionista, ritta in piedi, di spalle, scruto la romantica valle abissale che si spalanca sotto di me, fra le rocce. E, per ricambiare l’ospitalità, offro volentieri la mia seggiola panoramica alla Maya desnuda, a papa Innocenzo X, a Olympia, a Frida e a Vincent, a Egon e ad Artemisia.
Ma queste sono bagattelle che ci piace fare fra noi, quando giochiamo a scambiarci di posto. Ciò che voi volete sapere è se è tutto così, il vostro mondo ri-tridimensionalizzato, se è fatto di ambienti inscatolati, perimetrati, ritagliati, inquadrati, immaginati da voi, sempre e soltanto vostri, irrimediabilmente umani; oppure se c’è dell’altro, delle intercapedini, dei tessuti connettivi fra i vostri paesaggi: magari paesaggi intermedi, che non avete progettato voi, che sono sorti da sé, proliferando spontaneamente, dove nessuno di voi è ancora stato, dove nessuno ha ancora rappresentato alcunché.
Voi volete sapere se l’albero della vita di Gustav ha generato una foresta di rami dorati, spiraliformi, tutta da scoprire. E se la New York City di Piet si è ramificata in una allucinazione di strisce gialle e rosse e blu, e quali esseri la abitino. E se le luci del giorno di Réné schiariscono il cielo dappertutto mentre sulla terra è ancora notte ovunque. E i demoni ibridi di Hieronymus e di Johann Heinrich, sono traboccati fuori dalle loro inquadrature? Scorrazzano liberi per il mondo? Potrebbero scovarvi e torturarvi? Saturno il divoratore, e il gigante, e il cane nero di Francisco si sono già messi in viaggio verso di voi, si stanno avvicinando per schiantarvi? Io lo so, lo so ma non ve lo dico, vi guardo negli occhi e taccio, con la mia faccia stolida, il mio sorriso imbecille, il mio ghigno.
Ma no, non è così. Vi conosco. A voi non fa più paura niente. I pupazzetti di Bosch, di Füssli e Goya: figuriamoci se vi spaventano! Vi interessano solo le relazioni fra voi, l’unica cosa che conta ai vostri occhi, l’unica cosa reale. Sono talmente importanti che volete esportarle ovunque. Avete inventato un luogo inesistente perché volete sconfinare anche nell’inesistente, colonizzare anche quello, piazzare le vostre piccole relazioni umane perfino lì. Tutto intorno a voi è falso, solo voi, solo le relazioni tra di voi sono vere. È questo che volete sentirvi dire, solo le relazioni fra voi vi interessano, è questo che volete dalla vita.